Formazione. A Palermo e Catania il Manifesto di Venezia per una pari dignità
Il Manifesto di Venezia, nato da un lavoro congiunto tra l’Associazione GiULiA giornaliste, Fnsi e Usigrai, promuove un linguaggio appropriato nei media per casi di violenza contro le donne, perché le parole non feriscano una seconda volta. L’argomento, che purtroppo come testimonano le cronache è diventato un fenomeno strutturale, è stato affrontato in occasione di un incontro nell’ambito della formazione continua a Palermo il 17 febbraio, replicato a Catania il 19.
L’incontro ha avuto un riscontro molto positivo, con la presenza in aula di oltre duecento colleghi. Gli interventi di Alessandra Mancuso, presidente della Cpo Usigrai, e di Graziella Priulla, docente di sociologia dei processi culturali e comunicativi, hanno affrontato il tema del linguaggio di genere. Le due relatrici, coadiuvate a Palermo da Maria Pia Farinella ed a Catania dalla collega Michela Petrina, hanno sottolineato l’importanza di una terminologia corretta ai fini di un’informazione senza pregiudizi.
Oggi bisogna agire sulla cultura affinché l’uomo rinunci all’idea di possesso che fa parte di un retaggio del passato, quando stalking, mobbing e violenza domestica non erano definibili come reato. Con il Manifesto di Venezia si evidenzia la violenza di genere come una violazione dei diritti umani, pertanto l’impegno comune, sancito dalla Convenzione di Istanbul, comporta un’attenta analisi dei fatti perché “ogni giornalista è tenuto al rispetto della verità sostanziale dei fatti”. Un’informazione corretta e consapevole del fenomeno della violenza di genere e delle sue implicazioni culturali, sociali, giuridiche, al di fuori di stereotipi e pregiudizi, diventa un passo essenziale per il raggiungimento di una parità reale. L’Ordine con questi incontri sottolinea l’importanza della deontologia professionale che impone di evitare inutili sensazionalismi segnati da cronache morbose.
Il Manifesto, articolato in dieci punti, è contro ogni forma di discriminazione attraverso parole e immagini:
1. inserire nella formazione deontologica obbligatoria quella sul linguaggio appropriato anche nei casi di violenza sulle donne e i minori;
2. adottare un comportamento professionale consapevole per evitare stereotipi di genere e assicurare massima attenzione alla terminologia, ai contenuti e alle immagini divulgate;
3. adottare un linguaggio declinato al femminile per i ruoli professionali e le cariche istituzionali ricoperti dalle donne e riconoscerle nella loro dimensione professionale, sociale, culturale;
4. attuare la “par condicio di genere” nei talk show e nei programmi di informazione, ampliando quanto già raccomandato dall’Agcom;
5. utilizzare il termine specifico “femminicidio” per i delitti compiuti sulle donne in quanto donne e superare la vecchia cultura della “sottovalutazione della violenza”: fisica, psicologica, economica, giuridica, culturale;
6. sottrarsi a ogni tipo di strumentalizzazione per evitare che ci siano “violenze di serie A e di serie B” in relazione a chi subisce e a chi esercita la violenza;
7. illuminare tutti i casi di violenza, anche i più trascurati come quelli nei confronti di prostitute e transessuali, utilizzando il corretto linguaggio di genere;
8. mettere in risalto le storie positive di donne che hanno avuto il coraggio di sottrarsi alla violenza e dare la parola anche a chi opera a loro sostegno;
9. evitare ogni forma di sfruttamento a fini “commerciali” (più copie, più clic, maggiori ascolti) della violenza sulle le donne;
10. nel più generale obbligo di un uso corretto e consapevole del linguaggio, evitare:
a) espressioni che anche involontariamente risultino irrispettose, denigratorie, lesive o
svalutative dell’identità e della dignità femminili;
b) termini fuorvianti come “amore” “raptus” “follia” “gelosia” “passione” accostati a
crimini dettati dalla volontà di possesso e annientamento;
c) l’uso di immagini e segni stereotipati o che riducano la donna a mero richiamo sessuale”
o “oggetto del desiderio”;
d) di suggerire attenuanti e giustificazioni all’omicida, anche involontariamente, motivando
la violenza con “perdita del lavoro”, “difficoltà economiche”, “depressione”, “tradimento” e così via.
e) di raccontare il femminicidio sempre dal punto di vista del colpevole, partendo invece da chi subisce la violenza, nel rispetto della sua persona.
Questi i punti sottoscritti al momento da circa 900 giornalisti che si impegnano a rispettare il Manifesto di Venezia. Le colleghe ed i colleghi che volessero aderire potranno scrivere a cpo.fnsi@gmail.com
Osvaldo Esposito
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